"Associate Chapter della Association for Behavior Analysis International"
"European Association for Behaviour analysis - National Member Organization"
"Membro della European Association for Behavioural and Cognitive Therapies EABCT"

CERCA PSICOTERAPEUTA

A PROPOSITO DI RECOVERY RIFLESSIONI SUL RECOVERY E SULLA MALATTIA MENTALE

La malattia mentale è dinamica: decorsi eterogenei e outcomes

Negli ultimi cinquant’anni il concetto di malattia mentale è molto cambiato, soprattutto in seguito allo sviluppo di trattamenti finalizzati al reinserimento sociale e lavorativo e di importanti studi longitudinali, condotti per valutare gli esiti a lungo termine della schizofrenia (Huber, Gross, Schuttler & Linz, 1980; Ciompi & Muller, 1984; Harding, Brooks & Ashikaga, 1987a; De Girolamo, 1996).
Queste ricerche hanno dimostrato che la malattia mentale può evolvere positivamente fino ad arrivare alla guaribilità, il che non significa tornare ad essere come si era prima della malattia (restitutio ad integram del vecchio), ma elaborare ed attuare nuovi comportamenti per condurre una vita soddisfacente e produttiva, nonostante le limitazioni che la malattia induce (Anthony,1993).

In una recente review (Vita & Barlati, 2018) i risultati hanno riportato che, negli studi presi in considerazione, circa la metà dei partecipanti sono andati incontro alla risoluzione totale o parziale della sintomatologia nel lungo termine, suggerendo che la remissione o il recupero siano fenomeni molto più comuni di quanto inizialmente fosse stato pensato.
Secondo uno studio di Hardin, Zubin e Strauss (1992) anche una malattia mentale destrutturante, come la schizofrenia, può essere considerata una condizione dinamica, dipendente da una serie di fattori, tra cui l’ambiente, le interazioni sociali e il tipo di trattamento.
Il rapporto tra malattia e ambiente incide sia sul decorso che sugli esiti. Fondamentale per entrambi è anche la percezione che il paziente ha di se stesso come persona intera e quanto gli altri lo percepiscono come tale. Inoltre, incide la qualità del rapporto che ha con il contesto in cui vive.
L’assunzione che le persone con gravi disturbi psichici abbiano una vita senza scopi e progettualità è stata messa fortemente in discussione nei primi anni novanta (Moxley & Mowbray, 1994; Farkas, Gagne & Anthony, 1997).

Il focus spostato sulla persona

Da queste nuove prospettive sono derivate importanti conseguenze (Carozza, 2006): Il focus è stato spostato dal disturbo alla persona, ritenuta capace di recuperare le sue energie per poter migliorare i propri livelli funzionali di base. Sono stati messi in discussione alcuni pregiudizi che in passato hanno condizionato sia la visione di queste patologie che i trattamenti (ad es., che una diagnosi di schizofrenia rimane per sempre, non c’è possibilità di ritorno).

Oggi, numerosi studi, da quelli che hanno considerato i casi più gravi che richiedono frequenti ospedalizzazioni a quelli che hanno considerato i casi in cui l’episodio di singola malattia è seguito da una completa remissione dei sintomi, hanno riscontrato che la schizofrenia possiede una gamma eterogenea di decorsi e di outcomes (Leucht & Lasser, 2006; Zipursky, 2014; Emsley et al., 2011). Uno studio di Van Eck e colleghi (2017), afferma che la traiettoria della schizofrenia è piuttosto eterogenea, con risultati diversi.

Queste ricerche longitudinali hanno contribuito al superamento della convinzione che il deterioramento è l’esito della schizofrenia e hanno costituito il fondamento scientifico della nascita del concetto di Recovery, apparso per la prima volta negli anni ’80 nelle testimonianze dei pazienti che si sono “ripresi”.
Per tali utenti riprendersi significa “sviluppare in modo personale nuovi significati e propositi man mano che le persone si evolvono oltre la catastrofe della malattia mentale” (Anthony, 1993).
Da queste testimonianze si è visto che anche nelle psicosi più resistenti la ripresa è possibile.

Il concetto multidimensionale di Recovery

Un contributo importante alla nascita del concetto di Recovery è stato dato anche dalla diffusione di movimenti socio-politici per la difesa dei diritti delle persone con disabilità psichiatrica e l’emissione di normative finalizzate al superamento dell’emarginazione e dell’incuria in cui queste persone vivevano (in Italia la legge 180/78, la famosa Legge Basaglia che ha previsto la chiusura dei manicomi, ridando dignità e valore ai malati che vi erano rinchiusi).

Il concetto di Recovery è stato definito e tradotto in molti modi, ma in nessuna accezione coincide con la scomparsa della malattia, piuttosto rispecchia lo sviluppo di abilità perdute con la malattia e il recupero di un ruolo valido e soddisfacente all’interno della società (Carozza, 2006).

Non si riferisce a una cura o a una prestazione specifica, ma implica un percorso, spesso non chiaro, durante il quale l’utente deve imparare a fronteggiare gli eventi quotidiani, avere buone capacità relazionali e sociali, servendosi anche di opportuni sostegni e riconoscendo i propri limiti.

Il Recovery può essere inteso come un concetto a più dimensioni; è un percorso individuale e si riferisce al modo in cui una persona gestisce il proprio disturbo, vivendo autonomamente all’interno della società.
Per Liberman e Kopelowicz (2005) “le persone sono in Recovery quando i sintomi della loro malattia non interferiscono con il loro funzionamento nella vita quotidiana….”.
SAMHSA (Substance Abuse and Mental Health Services Administration) che è una succursale del Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti, fondata nel luglio del 1992 dal Congresso degli Stati Uniti d’America, definisce il Recovery come “un processo di cambiamento attraverso cui l’individuo migliora la propria salute e il proprio benessere, vive in modo self-directed e si impegna a vivere al meglio delle proprie potenzialità”.

Secondo SAMHSA ci sono 4 grandi dimensioni che supportano il Recovery:

  1. Health: capacità di gestire la propria malattia.
  2. Home: un luogo sicuro dove vivere.
  3. Purpose: attività significative, ad esempio il lavoro, lo studio, il tempo libero.
  4. Community: sentirsi parte di una rete sociale (ad es., amici, famiglia, quartiere o paese dove si vive).

L’Educazione Terapeutica e l’empowerment aiutano a diventare pazienti competentiù

Per quanto riguarda il potenziamento di abilità quali la gestione della malattia, un ottimo strumento per lo sviluppo di competenze finalizzate alla gestione di pensieri, emozioni e comportamenti sottostanti il vissuto di malattia è l’Educazione Terapeutica (D’Ivernois & Gagnayre, 2009).

Si tratta di un approccio alla malattia cronica, che consiste nel lavorare “con” il paziente e non “per” il paziente ed implica una precisa “postura” professionale, cioè un “modo” di pensare ed agire nel prestare assistenza ai malati per metterli in condizione di gestire il più autonomamente possibile la loro malattia e cura.
Ciò viene attuato partendo dai bisogni, dai progetti e dalle conoscenze del paziente. Complessivamente sviluppa l’aderenza al trattamento, una buona alleanza terapeutica, potenzia l’empowerment dell’utente e migliora la sua qualità di vita, rendendo l’utente un paziente competente.

Per Anthony (1993) il Recovery consiste nel “condurre una vita produttiva e soddisfacente anche in presenza delle limitazioni imposte dalla malattia mentale”.
Nei paesi anglosassoni, ma non solo, negli ultimi trent’anni, in seguito a una serie di fattori concomitanti è nato e si è sviluppato il “Recovery Movementche sostiene la deistituzionalizzazione e l’integrazione degli utenti psichiatrici nella vita comunitaria, un maggior controllo sul proprio destino, lo sviluppo del movimento per i diritti umani e la disponibilità di psicofarmaci maggiormente tollerati.

Studi di follow-up a lungo termine (Harding et al., 1992; Liberman & Kopelowitz, 2005) hanno evidenziato come il tasso di Recovery sia molto più elevato quando avviene dopo il primo episodio rispetto alla cronicità: 93% USA, Los Angeles; 91% Australia, Melbourne; 89% Nuova Scozia, Halifax (dopo il 1° episodio) vs il 45% USA, Chicago; 46 % USA, Iowa; 53% Svizzera, Berna (cronicità). Questi dati confermano l’importanza di attuare interventi precoci.
Gli interventi operativi di Recovery (Liberman, Kopelowitz, Ventura & Gutkind, 2002) possono essere individuati nella remissione o stabilizzazione dei sintomi, nel lavorare o studiare in contesti normali, nel vivere autonomamente autoresponsabilizzandosi (ad es., per ciò che riguarda la gestione del denaro e dei farmaci), nella gestione del tempo libero, nello sviluppo di relazioni sociali e familiari. Infine l’utente deve imparare a definire e raggiungere obiettivi che ritiene importanti.

Per poter parlare di Recovery i miglioramenti ottenuti devono essere mantenuti almeno per due anni. Da tutto ciò si può dire che il Recovery si intensifica con lo sviluppo di abilità personali e con il reinserimento nel contesto sociale.

Quali sono gli effetti del Recovery?

Gli autori concordano che gli utenti in fase di ripresa hanno un minor numero di sintomi e di ricoveri e recuperano molte aeree di vita perdute in seguito alla malattia; rifiutano il ruolo di persone malate gestendo i sintomi; recuperano diritti (ad es., essere trattati con dignità e rispetto; esercitare dirittie doveri come tutti gli altri cittadini), ruoli, responsabilità; sviluppano l’empowerment che favorisce la capacità contrattuale nel prendere decisioni che riguardano sia il trattamento che scelte di vita.
Attraverso la ricostruzione di contatti personali, sociali e ambientali c’è un’integrazione nella comunità e ciò porta alla speranza di un futuro migliore e alla soddisfazionedi condurre una vita significativa. L’aumento dell’autoefficacia e dell’autostima sono conseguenze di questi cambiamenti. Le persone che si sono riprese raccontano che hanno colto il miglioramento prima di tutto nel recupero delle aspettative positive e poi nel potenziamento dell’empowerment nel ristabilire le connessioni sociali (Carozza, 2006).

Due approcci quindi molto importanti per l’attuazione del Recovery sono l’insegnamento di abilità sociali e la riduzione dello stigma.

Lo Skills Training come insegnamento di abilità sociali

Per il primo approccio viene molto utilizzato lo Skills Training (Granholm, et al., 2005; Liberman, et al.,1998; Galderesi, et al., 2010; Bellack, et al., 2003;Liberman & Kopelowicz, 2009; Kalil, 2012) che è un trattamento finalizzato al potenziamento di specifiche abilità socio-emotive, in genere carenti in persone con disabilità psichiatrica.
E’ una forma di allenamento di capacità sia di tipo individuale, cognitive ed emotive (ad es., saper risolvere i problemi, saper prendere delle decisioni, gestire emozioni e stress), sia relazionali e psicosociali, (ad es., saper gestire i conflitti interpersonali, comunicare in modo efficace, esprimere correttamente desideri e bisogni).

Il tema delle skills s’inserisce e assume importanza con lo sviluppo in psicologia del Modello Bio-Psico-Sociale orientato allo studio della persona come sistema complesso e integrato e della cosiddetta Psicologia Positiva. Si passa così da un’educazione passivizzante, senza motivazioni e che propone soluzioni preconfezionate a un’educazione basata sul potenziamento e sull’assunzione di responsabilità da parte del singolo. Uno studio di Pfammatter e colleghi (2006), evidenzia come la salute mentale sia strettamente connessa alle abilità possedute, quindi le persone con più competenze sociali sono meno vulnerabili.
Lo Skills Training può quindi produrre effetti significativi sia sul benessere mentale, che sulla salute fisica e sul comportamento dei soggetti. Si arriva così a creare un vero e proprio circolo virtuoso: maggiori competenze e abilità vengono acquisite, maggiori saranno le opportunità per potenziare le stesse.Al contrario i deficit di abilità determinano stili di coping disadattivi che rappresentano un ostacolo all’empowerment. Un addestramento alle abilità diventa, quindi, una pratica, un percorso obbligatorio verso la realizzazione del Recovery.

Ridurre lo stigma: un pregiudizio e una barriera allo sviluppo del Recovery

Per il secondo approccio (ridurre lo stigma) è fondamentale combattere e superare i pregiudizi interni ed esterni che sono all’origine delle problematiche sperimentate da persone con malattie psichiatriche, come ad esempio la mancanza di un lavoro, incapacità di vivere autonomamente e di gestire la malattia, relazioni sociali scarse o assenti.

Lo stigma può essere di due tipi:

  • Interno (self- stigma: quello che gli utenti s’impongono), riguarda il modo in cui imparano a vergognarsi di se stessi e credere di valere meno degli altri.Molti si sentono deboli e fragili, forse perché spesso i loro obiettivi vengono svalutati e sono sempre gli altri a decidere per loro, per cui hanno paura sia del fallimento che del successo. I pregiudizi interni nascono anche dalle esperienze di impotenza, disperazione, solitudine e segregazione vissuta dopo l’esordio della malattia (Cavelti, et al., 2012; Vrbova, et al., 2017).
  • Esterno (quello imposto dalla società e dalle istituzioni), riguarda il modo in cui la società (spesso anche gli operatori) rinforzano questo vissuto di inferiorità percepito dai pazienti, favorendo la dipendenza e la negazione di tutte quelle opportunità che vengono invece concesse a tutti gli altri cittadini. Lo stigma istituzionale è dato dall’insieme delle ideologie economiche, culturali e politiche che mantengono questi pazienti in uno stato di inferiorità, negando il concetto di riabilitazione e non riconoscendo i miglioramenti ottenuti (Hofman, 2016).

Interessanti sono anche alcuni studi che indagano l’attitudine al pregiudizio e allo stigma degli stessi operatori della salute mentale, ad esempio lo studio di Rossler e colleghi (2006): in questo studio, per esempio, i pregiudizi degli operatori della salute mentale (1073 operatori) nei confronti di persone affette da schizofrenia e depressione sono risultati maggiori rispetto ai pregiudizi della popolazione generale (1737 persone).
Il processo di riabilitazione deve considerare sia lo stigma interno che esterno, perché solo una visione completa di tale problematica può portare al suo superamento.
Purtroppo, nonostante tali pregiudizi siano stati confutati attraverso evidenze scientifiche, permangono, anche se in minor misura e sebbene si parli sempre più spesso di superamento dello stigma, esso è ben radicato. Accade ancora frequentemente che chi lavora in ambito psichiatrico si sorprenda quando questi pazienti rivelano bisogni estremamente normali, come ricercare amicizie o relazioni affettive, oppure quando chiedono di lavorare, avere degli hobby o sposarsi e desiderare dei figli.

Nuove strategie nella CBT e le indicazioni delle linee guida

I pregiudizi associati al fallimento degli interventi tradizionali hanno spinto sempre più verso la ricerca di nuove strategie riabilitative che favoriscano il Recovery.

Per favorire percorsi di Recovery è necessario spostare il focus dalla malattia alla totalità della persona e alla sua rete di appartenenza.
Va migliorata la qualità di vita di questi utenti e favorita la loro autonomia ed emancipazione anche dalla dipendenza dei servizi, in modo da potenziare le loro capacità di scelta e di azione (Dell’Acqua, 2013). Inoltre l’approccio non deve focalizzarsi solo sui sintomi primari, ma anche sulle conseguenze funzionali e psicologiche dello sperimentare una malattia mentale grave (Nordendoff & Austin, 2014).
Anche la CBT viene considerata un intervento idoneo a promuovere il Recovery: “ …l’attuale approccio CBT rivolto alla Recovery sociale e alla perdita di speranza gestendo ad un tempo i sintomi psicotici e le disfunzioni emozionali sembra muoversi verso una sempre più completa e funzionale presa in carico, non solo della difficoltà patologica,ma anche del benessere e della progettualità della persona….” (Meneghelli & Fowler, 2012). La terapia cognitivo comportamentale ha acquisito uno status scientifico solido (Van der Gaag, 2014) e viene raccomandata anche dal National Institute for Clinical Excellence (NICE, 2002) come strumento fondamentale per iniziare il trattamento e per promuovere il Recovery (Meneghelli, 2000).

Strumenti di misurazione

Il crescente interesse per tale concetto rende sempre più urgente l’individuazione di strumenti valutativi che lo misurino, anche per verificare l’efficacia delle pratiche utilizzate dai sistemi di servizi di salute mentale. Attualmente si dispone di diverse scale come il RAQ (Recovery Attitude Questionnaire, Borkin, et al., 1998), il Rochester Recovery Inquiriy, un questionario qualitativo a risposte aperte (Hopper, Auslander, Blanch, 1996), che sono più orientati al recovery del servizio e o al personale, mentre la RAS (Recovery Assessment Scale) che è la scala più usata per misurare il Recovery, ritenuta affidabile, valida e coerente (Corrigan, et al.,1999) misura il recovery personale dell’utente ed è autosomministrata. La validazione italiana è stata effettuata nel 2011 da Boggian e colleghi

Articolo scritto da

Maria Grazia Bergamasco e Romana Schumann

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