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CERCA PSICOTERAPEUTA

Gli attacchi di panico secondo la prospettiva CBT

Il disturbo di panico appartiene alla categoria diagnostica dei Disturbi d’Ansia ed è costituito da attacchi d’ansia improvvisi, di estrema intensità, tali risposte ansiose sono di volta in volta erroneamente interpretate come un segnale di patologia fisica o mentale (Andrews, 2003).

La prevalenza del disturbo di Panico (Politis, 2020) oscilla tra l’1,7% e il 4,7% tra adulti e adolescenti, mentre l’età d’insorgenza si aggira tra i 21,1 e i 34,9 anni (Lijster, 2017).

attacchi di panico

Caratteristiche dell’attacco di panico

L’attacco di panico viene descritto come un breve ma intensissimo periodo di paura in cui si avverte la sensazione di essere in procinto di morire, di poter perdere il controllo, di avere un infarto, un ictus o di impazzire.

I sintomi principalmente riscontrati sono:

  • Tremori, tensioni muscolari;
  • Palpitazioni e tachicardia accompagnate da “Fame d’aria e sensazione di soffocamento”;
  • Nodo in gola
  • Dolore, oppressione o fastidio al petto;
  • Nausea o dolori addominali;
  • Sudorazione;
  • Vertigini, sensazioni di instabilità e di svenimento;
  • Brividi o vampate di calore;
  • Parestesie (sensazioni di formicolio o di intorpidimento)
  • Sensazione di confusione mentale,di irrealtà o di non essere più gli stessi (derealizzazione e depersonalizzazione).

Il DSM V (APA, 2013) per diagnosticare il disturbo, prevede la presenza di almeno 4 sintomi tra quelli elencati, al di sotto dei quali siamo alla presenza di “attacchi paucisintomatici”.

L’attacco di panico ha un inizio improvviso, raggiunge l’apice solitamente nell’arco di dieci minuti e non dura in genere più di venti minuti. È necessario tenere presente che un singolo attacco di panico non può essere subito inquadrato come un disturbo di panico (DAP), in quanto può presentarsi anche in altri quadri clinici, la comparsa di un singolo episodio non è sufficiente per la diagnosi di DAP.

Quando l’attacco di panico si concretizza in un disturbo

Gli attacchi di panico si concretizzano in un disturbo vero e proprio, quando si riscontra un
aumento significativo di frequenza ed intensità, tale da compromettere la qualità di vita della
persona. Il decorso del disturbo, se non trattato tempestivamente, generalmente comporta un
aumento dell’ansia anticipatoria e delle condotte di evitamento, caratterizzate dal timore che
possa verificarsi un altro attacco in circostanze analoghe e dall’evitamento delle situazioni
temute.

Neurofisiologia del panico

Durante un attacco di panico spesso si sperimentano sintomi fisici accompagnati da pensieri di pericolo come: paura di impazzire, di avere un infarto o un tumore al cervello, di diventare ciechi o morire soffocati, che fanno supporre di avere qualche problematica di tipo organico.
In realtà non esistono cause organiche alla base di questi sintomi, ma nonostante ciò si mettono in atto una serie di tentativi per rintracciare spiegazioni biologiche che risultano fallimentari. È utile ricordare che i sintomi somatici del panico originano da un normale processo fisiologico.

L’uomo è dotato di un sistema innato di difesa il SNA (sistema nervoso autonomo) che si attiva di fronte ad un segnale di pericolo per prepararsi a fronteggiarlo o a scappare: i muscoli vanno in tensione, il respiro accelera per portare più ossigeno al sangue, così come il battito cardiaco aumenta per favorire l’afflusso di sangue verso i muscoli e subentra la sudorazione per raffreddarli.

La teoria polivagale di Porges (1994) attribuisce all’attacco di panico una reazione di iperarausal del SNC Sistema Nervoso Centrale dovuto ad uno squilibrio funzionale di attivazione tra simpatico e parasimpatico regolata dal nervo vago. Resta comunque importante il ruolo svolto dall’amigdala che attiva le altre aree sub corticali del cervello per una carenza funzionale della corteccia prefrontale responsabile del controllo dell’attività dell’amigdala e dell’ippocampo.

L’ansia anticipatoria è una risposta condizionata, che va opportunamente estinta con tecniche cognitivo comportamentali e approcci legati all’ACT che utilizzano training di mindfulness centrati sull’esercizio dell’attenzione consapevole e del controllo degli automatismi disfunzionali.
Studi di neurofisiologia, hanno evidenziato nel DAP un funzionamento difettoso della “centralina d’allarme” del cervello, l’amigdala, che segnala la presenza di un pericolo anche quando non c’è, provocando un immotivato stato di allerta che corrisponde alla manifestazione di attacchi di panico. L’attivazione dell’amigdala si diffonde ad altre aree del cervello come l’ipotalamo responsabile dei sintomi fisici (ad es. batticuore, vertigini, mancanza d’aria e tremori), la corteccia prefrontale dalla quale si generano le interpretazioni catastrofiche (ad es. svengo, muoio, mi sta venendo un infarto) e gli evitamenti. Mentre l’ansia anticipatoria, sarebbe legata al coinvolgimento del sistema limbico.

Curare gli Attacchi di Panico con la Terapia Cognitivo Comportamentale

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è è il trattamento psicologico più praticabile e raccomandato per il disturbo di panico ((American Psychiatric Association, 1998, 2009; Royal Australian & New Zealand College of Psychiatrists, 2003; NICE, 2011; Katzman et al. 2014) in linea con queste racccomandazioni studi di metanalisi (Papola,2022; Pompoli 2018; Gould et al. 1995) hanno rilevato che la CBT è il trattamento più efficace tra le altre terapie psicologiche concorrenti ed ha effetti positivi anche in fase di prevenzione. Essendo un intervento evidence based, si avvale di una serie di tecniche e protocolli ben strutturati.

Tra le principali tecniche individuiamo:

  • Psicoeducazione: informazioni sulla malattia e le dinamiche capaci di mantenerla nel tempo, trattasi del “circolo vizioso del panico” volto ad evidenziare il ruolo delle sue interpretazioni nella genesi e nel mantenimento dei successivi attacchi di panico. Attraverso l’acquisizione della consapevolezza s’interrompe il circolo vizioso dell’ansia e si evita un peggioramento delle sensazioni fisiche spiacevoli.
  • Tecniche comportamentali: si basano sull’esposizione diretta agli stimoli temuti. Queste esposizioni si possono effettuare dal vivo o attraverso l’immaginazione e sono spesso associate a tecniche di rilassamento;
  • Il modello cognitivo: afferma che non è la situazione in sé a spaventare, ma il modo in cui viene interpretata, il pensiero di poter avere un attacco di panico influenza le reazioni corporee, inducendo uno stato di ansia che, a sua volta, porterà alla comparsa di ulteriori sintomi fisici e i pensieri negativi innescheranno il circolo vizioso, andando a determinare gli effetti sul corpo.
  • Tecniche di esposizione: esposizione a stimoli interni con lo scopo di indurre sensazioni particolarmente temute come tachicardia, sudorazione, nausea con l’obiettivo di modificare progressivamente la lettura di tali sensazioni. Gli esercizi di esposizione enterocettiva servono a suscitare proprio le sensazioni corporee simili a quelle che si manifestano spontaneamente in caso di ansia. Indurre volontariamente i propri sintomi vuole dire contraddire l’abitudine a sfuggirli ed evitarli perché considerati pericolosi. L’obiettivo è, quindi, quello di affrontare un episodio di tachicardia o vertigine e di superarlo senza ricorrere a mezzi di evitamento e fuga. Lo scopo finale consiste nell’apprendere che tali episodi non sono pericolosi o mortali e che è possibile affrontarli e gestirli.

I principali modelli eziologici

Goldstein e Chambless (1978) propongono un modello fondato sulla teoria dell’apprendimento, in base al quale l’ansia viene associata al pericolo. Secondo questi autori l’individuo risulta molto attento alle sensazioni corporee sperimentate e le interpreta costantemente come segnali di un imminente attacco di panico. Il modello cognitivo dell’ansia e delle fobie (Beck, 1987) considera come nucleo centrale dei Disturbi D’ansia la vulnerabilità personale, intesa come una condizione ansiosa connessa alla paura di perdita di controllo difronte a stimoli interni o esterni potenzialmente pericolosi. Il pensiero ansioso si baserebbe su schemi cognitivi dominati dal cluster del pericolo. Quando è presente un disturbo d’ansia, la persona sottovaluta le proprie risorse personali focalizzandosi sulle proprie vulnerabilità, finendo con il considerarsi inadeguata e debole nel fronteggiare una possibile minaccia. Nel modello cognitivo del panico (Clark & Salkovskis, 1986) descrive il circolo vizioso che porta al mantenimento degli attacchi di panico che può essere innescato da pensieri, emozioni o sensazioni somatiche (giramenti di testa, tachicardia, vampate di calore) e mentali (problemi di concentrazione, pensieri annebbiati) che danno luogo a un’intepretazione negativa disfunzionale caratterizzata da pensieri automatici negativi (PAN), come ad esempio ‘sto per avere un infarto’ che vengono erroneamente interpretate come segnali di un imminente pericolo per la salute, in quanto considerate segnali, ad esempio di un attacco cardiaco.

panico

La teoria basata sui fattori psicologici (o “flight or fightresponse”) di David Barlow (Barlow & Craske, 2000), sostiene che il DAP sia determinato da una risposta incondizionata di paura ad una normale reazione fisiologica che attiva una reazione d’allarme con relativo stato di attivazione. La paura che possa accadere di nuovo innesca una serie di anticipazioni che portano ben presto ad un processo di generalizzazione di comportamenti di evitamento.

Il modello metacognitivo dei Disturbi d’Ansia di Adrian Wells (2009) considera alla base del malessere emotivo di tale disturbo uno stile di pensiero dannoso detto “CAS” (Cognitive Attentional Sindrome) dal quale originano preoccupazioni e ruminazioni (catene di pensiero). Nel Disturbo di Panico vi sarebbero due credenze metacognitive che alimentano il disturbo: quelle positive che riguardano il controllo dei sintomi fisici (“se controllo… sarò al sicuro”) e quelle negative, legate agli aspetti di perdita del controllo e di pericolo (“se non controllo… sarò in pericolo”) che focalizzano l’attenzione sulla minaccia e mantenute da strategie disfunzionali di coping.

modello meta sistema panico

La teoria su base fisiologica di Donald Klein si fonda sul concetto di “sensibilità all’ansia o all’ipercapnia”. Secondo questa teoria, alcune persone hanno una maggiore vulnerabilità agli attacchi di panico a causa di una disregolazione respiratoria che comporta aumenti fisiologici dell’ansia o della respirazione, che può essere a sua volta influenzata da fattori genetici, esperienze di vita stressanti o predisposizioni individuali. Donald Klein e Donald Levy affermano che questa sensibilità comporti una irregolarità respiratoria, paragonabile ad uno stato di iperventilazione, con bassi livelli di CO2 a fine respiro. Tale sensibilità all’incremento di CO2 induce la percezione delle sensazioni di soffocamento e fame d’aria. In tal senso sono insorti interventi per il panico che integrano il trattamento del biofeedback a training respiratori assistiti da capnometria (BRT) volti ad eliminare le diminuzioni persistenti o acute della pCO2 arteriosa, caratteristica distintiva dell’iperventilazione, e quindi in grado di di prevenire gli stati ansiosi (Ley, 1985). Tra questi Montgomery e Yucha hanno unito alla CBT l’uso del biofeedback seguendo le linee guida della Task Force dell’Applied Pychophisiology Neurofeedback (AAPB, ISNR). Studi preliminari (Meuret, 2008) suggeriscono che l’aumento della pCO2 di fine espirazione mediante feedback capnometrico è terapeuticamente vantaggioso per i pazienti affetti da panico.

Infine consideriamo l’applicazione della pratica mindfulness agli attacchi di panico il cui presupposto di base è quello di evitare la fusione cognitiva che alimenta l’attribuzione catastrofica delle conseguenze, spostando l’attenzione all’esterno, accogliendo in modo non giudicante la reazione enterocettiva imparando a controllarla come un evento transitorio “impermanante”. La mindfulness, nello specifico il protocollo MBSR Mindfulness Based Stress Reduction di John Kabat Zinn, integrato alla terapia cognitiva comportamentale (Vøllestad 2011; Barlow 2006; Levitt&Karekla, 2005; Grossman et al., 2004; Miller, Fletcher &Kabat-Zinn, 1995) può favorire l’abbassamento del livello di attivazione nervosa e il raggiungimento di uno stato di defusione dai pensieri, focalizzando l’attenzione sulle sensazioni fisiche, agendo in tal modo sulle emozioni, riducendone l’attivazione. L’obiettivo è duplice: dirigere la propria attenzione al momento presente con accettazione consapevole non giudicante e spostare l’attenzione alle sensazioni fisiche, distanziando i pensieri catastrofici anticipatori. Il continuo riferimento al presente attraverso la respirazione consente di ritardare l’attivazione di automatismi disadattivi legati allo stress e favorendo cosi una risposta consapevole.

Autore Articolo

D.SSA ALESSANDRA DI BERARDINO
PSICOTERAPEUTA COGNITIVO COMPORTAMENTALE, DOCENTE AIAMC,
DIRIGENTE PSICOLOGA ASL PESCARA, PRATICTIONER EMDR.
DR. CARLO DI BERARDINO
PSICOTERAPEUTA COGNITIVO COMPORTAMENTALE, DOCENTE E
SUPERVISORE AIAMC, DIRETTORE CPC (PESCARA).
D.SSA FEDERICA CARVELLI
PSICOLOGA SPECIALIZZANDA AL SECONDO ANNO DELLA SCUOLA CPC DI
PESCARA.

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Bibliografia

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Sitografia

Tundo A. , Disturbo di Panico: quali le cause? (2014). Istitutodipsicopatologia.it

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