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“Evitare l’esposizione”. Motivi e rimedi di un comportamento clinico paradossale

La terapia di esposizione rappresenta uno dei grandi successi nella storia del trattamento delle malattie mentali ed il mondo della psicologia clinica dovrebbe andarne fiero!

Tuttavia, nonostante i numerosi e documentati successi ed i recenti aggiornamenti concettuali e procedurali (Toso E. 2019 in pubblicazione), tale intervento viene sempre meno utilizzato dagli operatori della salute mentale che preferiscono impiegare altri tipi di terapie (psicologiche o farmacologiche), meno efficaci ed efficienti, a discapito del benessere dei pazienti e dei costi a carico del sistema sanitario.

Terapia Espositiva

Per fare alcuni esempi, Foy et al. (1996) hanno riferito che la terapia espositiva è stata utilizzata per trattare meno del 20% di 4.000 veterani di guerra sofferenti di disturbo post traumatico da stress.
In un’altra indagine simile Becker, Zaifert e Anderson (2004) hanno chiesto informazioni sull’uso dell’ esposizione nel PTSD ad un campione di oltre 800 psicologi esperti ed i risultati ottenuti furono alquanto “preoccupanti”: l’83% dei terapeuti non avevano mai usato l’esposizione con pazienti che soffrono di PTSD. Meno del 20% di loro, dunque, ha riferito di usare la terapia espositiva per trattare i propri pazienti con disturbo post traumatico da stress e, più precisamente, solo il 9% ha riportato di aver usato l’esposizione almeno nel 50% dei casi.
I risultati sono stati replicati in un sondaggio più recente da van Minnen, Hendriks e Olff (2010) su oltre 250 esperti di traumi. Ma la scarsa utilizzazione della terapia di esposizione non è specifica per il PTSD, tale tendenza si estende anche ad altre psicopatologie.
Uno studio tedesco ha infatti scoperto che, nel trattamento di pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo (OCD), oltre l’80% ha riferito che nessun componente di esposizione è stato utilizzato nel loro trattamento (Böhm, Förstner, Kulz, Voderholzer, 2008).
Sempre a tal proposito, qualche anno prima, in un sondaggio a degli psicoterapeuti che regolarmente curavano i disturbi d’ansia, Freiheit et al. (2004) hanno chiesto agli intervistati di specificare quali tra le diverse procedure specifiche di terapia dell’esposizione avevano usato nel trattamento di disturbo ossessivo e compulsivo, disturbo di panico e fobia sociale (rispettivamente esposizione e prevenzione della risposta; esposizione interocettiva; esposizione in vivo individuale e di gruppo).

I ricercatori, hanno anche chiesto agli intervistati riguardo l’uso di interventi di terapia diversi dall’ esposizione (ristrutturazione cognitiva, respirazione, rilassamento, biblioterapia).
Nel trattamento del DOC il 67% degli intervistati, in genere, ha usato la ristrutturazione cognitiva e il 41% un training di rilassamento mentre solo il 38% ha utilizzato l’esposizione con prevenzione della risposta.
Nel trattamento del panico il 71% dei terapeuti ha usato di norma la ristrutturazione e il rilassamento ma solo il 12% ha utilizzato l’esposizione enterocettiva.
Nel trattamento della fobia sociale il 69 % ha usato la ristrutturazione e il 59% il rilassamento e ancora solo il 31% ha utilizzato l’esposizione in vivo (il 7% individuale e l’1% in gruppo).

Questo “atteggiamento evitante”, nei confronti della terapia espositiva, dovrebbe veramente essere considerato un grave errore clinico considerando che l’esposizione viene designata come l’intervento di prima scelta per tutti i disturbi citati. Fortunatamente, a tal proposito, nell’ultimo decennio, alcuni ricercatori hanno iniziato ad indagarne le cause così da proporre alcuni possibili rimedi.
Alla luce di quanto emerso fino ad oggi, lo scarso utilizzo dell’esposizione da parte dei terapeuti sarebbe da attribuire ad una scarsa ed inadeguata formazione (Hembree e Cahill 2007), alla presenza di ansia nei terapeuti stessi (Levita et al. 2016), alla preferenza per i trattamenti individualizzati rispetto a quelli manualizzati (Becker et al. (2004)e alla presenza di diversi pregiudizi (Deacon 2013).

La formazione dei terapeuti

I progressi raggiunti negli ultimi decenni, nelle aree di apprendimento, memoria, cognizione e neurobiologia sono stati sistematicamente applicati per migliorare gli effetti, già comunque buoni, dell’ esposizione.
La terapia espositiva, dunque, sta vivendo, per lo meno in laboratorio e nell’ambito della ricerca, un ricchissimo e vigoroso periodo di ulteriore crescita che la rende “più solida” sia da un punto di vista concettuale che procedurale.
A decine si possono trovare, nei più importanti database (MEDLINE e PsycINFO), gli articoli scientifici che descrivono interessanti aggiornamenti. Sorprendentemente, però, non si assiste a quello che dovrebbe essere un’ ovvia e fisiologica proposta di formazione e aggiornamento (da parte degli enti preposti) per i terapeuti.
Hembree e Cahill (2007), Richard e Gloster (2007) e Becker et al. (2004) sono alcuni tra i pochi clinici, sensibili all’argomento, che indicano nella mancanza di un adeguata proposta formativa, un ostacolo principale a questo scarso utilizzo clinico dell’esposizione.

Un esempio (raro) di adeguata formazione può essere quello eseguito dalla professoressa Edna Foa (professore di psicologia clinica e psichiatria all’università della Pennsylvania).
Il training in esposizione prolungata per il trattamento del PTSD (attualmente la terapia più raccomandata per tale disturbo) inizia con un workshop intensivo di 3 o 4 giorni che comprende un adeguato insegnamento e discussione della teoria e della pratica terapeutica con il supporto di dimostrazioni da parte dei formatori esperti (attraverso giochi di ruolo con osservazione e feedback del trainer e la visione e discussione di sessioni di terapia videoregistrate).
Anche la professoressa Michelle Craske, uno dei massimi esponenti promotori delle innovazioni della terapia di esposizione (modello inibitorio), rappresenta un caso raro di promozione e formazione dei terapeuti sull’argomento.
La mancanza di una sufficiente proposta formativa, purtroppo, corre il rischio di portare all”estinzione” la terapia di esposizione; aspetto, questo, veramente ironico.

L’ansia nel terapeuta

terapia espositiva

Tra le diverse motivazioni che possono spiegare il non utilizzo dell’esposizione vi può essere l’ansia che il terapeuta potrebbe provare nel prescrivere ed usare la terapia. Ciò porta a una situazione paradossale nella quale è proprio il terapeuta il primo ad evitare che il paziente si esponga. In un recente studio, a tal proposito, Levita e collaboratori (2016) hanno studiato l’associazione tra l’ansia provata dai terapeuti e l’implementazione di tecniche espositive. I risultati dello studio hanno evidenziato, effettivamente, come la rigorosa somministrazione dei protocolli di esposizione fosse ostacolata dall’ansia dei clinici medesimi. Questi risultati suffragano, in modo sostanziale, le prove già esistenti che l’ansia del terapeuta ostacola l’utilizzo della terapia di esposizione (per esempio, Harned et al. 2013; van Minnen et al. 2010; Waller et al. 2012) ed, al contempo, mettono in luce come possa essere rilevante che la gestione di tale ostacolo debba essere affrontata durante la loro formazione.

Preferenza per i trattamenti individualizzati rispetto a quelli manualizzati
Becker et al. (2004) hanno riscontrato che una delle cause alla base dello scarso utilizzo dell’esposizione è una maggior preferenza per i trattamenti individualizzati rispetto a quelli manualizzati.
Tale tendenza è stata riscontrata e confermata in diversi altri studi (Addis e Krasnow 2000). Nella terapia manualizzata il terapeuta esegue fedelmente un intervento seguendo le linee guida stabilite da un manuale per la cura di un determinato disturbo per il quale è stato sperimentalmente provato e la terapia di esposizione, essendo altamente strutturata, si presta benissimo ad essere manualizzata.
Un esempio di manualizzazione è il protocollo di esposizione prolungata messo a punto da Edna Foa per il PTSD (2007).

Il trattamento prevede dalle 10 alle 14 sedute di 90 minuti ciascuna e come moduli contiene: psicoeducazione sulle risposte al trauma e sui circoli di mantenimento del disturbo, esposizione immaginativa, esposizione in vivo e “compiti per casa” (es. viene chiesto al paziente di riascoltare le registrazione delle sedute).
Interventi manualizzati come questi, a detta di molti psicologi, disumanizzerebbero il processo di terapia rendendo il terapeuta più simile a un “freddo tecnico” che ad un clinico premuroso, enfatizzando la tecnica a discapito delle caratteristiche specifiche di ogni paziente (Goldfried e Wolfe, 1998; Silverman, 1996; Fensterheim e Raw, 1996). Paradossalmente, però, i terapeuti dovrebbero sapere che, proprio per essere efficace, la terapia di esposizione dovrebbe essere più simile al processo di estinzione con gli animali di laboratorio piuttosto che ad un rapporto “caldo e rassicurante”. Tale opportuno atteggiamento risulta peraltro difficile da perseguire visto che per natura la terapia esce da un setting rigido e formale comportando un livello di coinvolgimento attivo ben elevato con il proprio assistito.

Aspetti etici

I principi etici impongono che i terapeuti evitino di danneggiare in vari modi i pazienti, salvaguardando il loro benessere. Poiché la terapia dell’esposizione comporta una deliberata provocazione di ansia e angoscia, alcuni terapeuti, dunque, ritengono che il suo utilizzo sia poco etico. Il pregiudizio principale contro l’esposizione, infatti, deriva dal fatto che questo intervento evoca troppa angoscia, piuttosto che lenire l’ansia, e per questo si pensa che i suoi fini non giustifichino i mezzi. A tal proposito, ad esempio, Lauren Slater in un articolo del New York Times (The Cruelest Cure 2003), descrive l’esposizione come una “tortura”, una procedura che va contro l’etica degli psicologi. Questa credenza è comune tra i terapeuti di tutti gli orientamenti teorici ed è una delle ragioni principali del non utilizzo della terapia. Per ovviare a tale rinuncia bisognerebbe considerare il lavoro di un medico che, in certi casi, è costretto a sottoporre i suoi pazienti a dosi temporanee di dolore pur di curarli. Per fare un esempio l’ oncologo, per salvare la vita dei suoi pazienti è costretto a somministrare la chemioterapia. In effetti, l’esperienza di un disagio temporaneo, a volte, è necessaria per assicurare un miglior risultato a lungo termine. I terapisti che non usano l’esposizione per ragioni etiche e umanistiche, dunque, stanno paradossalmente privando i loro pazienti del trattamento ottimale che meritano oppure, in alternativa, rischiano di usare un tipo di esposizione eccessivamente prudente ma, proprio per questo, meno efficace (Craske et al. 2014).
Oltre a ritenere che la terapia di esposizione non sia etica a causa della sua apparente crudeltà, un’altro pregiudizio riguarda la possibilità che il trattamento crei le basi per violazioni nel rapporto professionale terapeuta – paziente, comportando un livello di coinvolgimento attivo troppo elevato con il proprio assistito.
Ad esempio, la terapia di esposizione a volte richiede che i terapeuti escano con i loro pazienti dal proprio studio per condurre esposizioni in contesti differenti. La conduzione della terapia al di fuori dello studio potrebbe aumentare, infatti, la probabilità di interazioni meno formali, alcune delle quali potrebbero non essere rigorosamente terapeutiche e dunque “pericolose” (Barnett et al. 2007). I terapeuti eccessivamente preoccupati per tale aspetto, dovrebbero tener conto che limitare le esposizioni dentro lo studio o delegare al paziente le esposizioni, da solo e all’esterno, riduce gli effetti della terapia. Occorre variare lo stimolo temuto, è fondamentale cambiare il contesto e serve tener conto che una maggior presenza in campo del terapeuta (nelle prime fasi dell’intervento) risulta essere più indicata (Abramowitz 1996). L’applicazione dell’esposizione al di fuori dello studio dovrebbe avvenire, comunque, solo quando il terapeuta lo ritiene necessario per curare nel migliore dei modi il disturbo del paziente e comunque sempre in accordo con lui.

Esposizione e danni al paziente

Un altro pregiudizio che ostacola la mancata diffusione dell’esposizione è la preoccupazione di danneggiare i pazienti a causa dell’intensa ansia da loro provata durante la terapia (Blakey et al 2015). Tale convinzione riflette una serie di miti sulla natura dell’ansia stessa, ad esempio che risulta intollerabile a dosi elevate e che l’esperienza di sintomi somatici prolungati e intensi può portare a un’emergenza medica, come ad esempio, la perdita di coscienza o l’infarto. I terapeuti dovrebbero sapere che l’ansia non è intrinsecamente pericolosa per la stragrande maggioranza delle persone, e coloro che potrebbero essere danneggiati (es. individui con asma grave o cardiopatie) non sono candidati per l’esposizione (Neudeck e Einsle 2012 pp. 23 – 34). Il problema dell’aggravarsi dei sintomi d’ansia in conseguenza dell’esposizione è stato ben indagato da Foa et al. (2002). Esaminando l’esacerbazione dei sintomi durante l’esposizione prolungata in pazienti affetti da PTSD, l’autrice dello studio ha constatato che se condotta correttamente, la terapia è un trattamento sicuro e ben tollerabile da questo punto di vista.
Nonostante la sua sicurezza e tollerabilità, relativamente all’intensificazione degli stati d’ansia, la terapia a volte può, però, veramente condurre i pazienti a maggiori rischi di danno emotivi e / o fisici rispetto a molte altre forme tradizionali di psicoterapia. Ad esempio, l’esposizione potrebbe comportare delle conseguenze negative quando i pazienti si avvicinano ad animali (come nella cura di una fobia specifica), mentre toccano oggetti “sporchi” (come nel DOC), oppure quando parlano in un contesto sociale dov’è possibile ricevere delle critiche (nella fobia sociale).
È, altresì, possibile che, durate la terapia, un paziente claustrofobico rimanga accidentalmente bloccato in un ambiente angusto per molto tempo (ad es. un ascensore), oppure che un fobico della guida subisca un incidente in auto. D’altronde, come nella vita reale, non vi è alcuna garanzia assoluta di sicurezza nemmeno nella terapia di esposizione. In effetti, si potrebbe affermare che uno degli obiettivi del trattamento è quello di insegnare i pazienti ad affrontare le situazioni temute in assenza di tale garanzia.

Esposizione e rischi legali

I terapeuti convinti che l’esposizione sia crudele e potenzialmente pericolosa per i loro pazienti possono anche preoccuparsi dei rischi legali associati all’uso di questo trattamento.
Tale preoccupazione prevede denunce legali e professionali al proprio ordine, con relative richieste di risarcimento. Per fare un esempio, una paziente, che in seguito ad un grave incidente stradale ha paura di tornare alla guida dell’auto, potrebbe denunciare il terapeuta se succedesse un incidente mentre esegue le esposizioni (guidare per l’appunto) prescrittegli.
Per far fronte a preoccupazioni del genere, i terapeuti trarrebbero beneficio dalla consapevolezza dell’assoluta assenza di prove che suggeriscano che l’esposizione sia associata ad un aumentato rischio di contenzioso.

A tal proposito Richard e Gloster (2007) hanno indagato la documentazione legale per i casi giudiziari che prevedevano la terapia dell’esposizione. I loro esaurienti criteri di ricerca non hanno rivelato una singola istanza di contenzioso correlato a questo trattamento. Allo stesso modo, nessuno degli 84 membri dell’associazione americana per i disturbi d’ansia, intervistati sempre da Richard e Gloster, ha riferito di essere a conoscenza di eventuali azioni legali o denunce relative all’esposizione. I risultati ottenuti dalle indagini eseguite, comunque, non possono escludere la possibilità che ci siano state delle lamentele, più o meno formali, da parte dei pazienti o dei loro famigliari che possono essersi sentiti lesi, maltrattati o poco rispettati, eticamente parlando. Alcuni reclami, dunque, possono essere stati fatti, ma liquidati, archiviati e risolti in via extragiudiziale.

Per maggior sicurezza, dunque, si consiglia di:

1. Tener conto di chi può essere il candidato ideale per la terapia;
2. Ottenere sempre il consenso informato;
3. Saper determinare il rischio accettabile per ogni sessione di esposizione.

Esposizione e danni al terapeuta

Un ulteriore ostacolo all’esposizione deriva dalla convinzione che la procedura sia dannosa per il terapeuta stesso (Litz, 2002). Alcuni clinici credono, infatti, che assistere alle esperienze di sofferenza dei loro pazienti, durante sessioni di esposizione particolarmente intense, possa produrre effetti psicologici persistenti e negativi in loro stessi. A tal proposito, Castro e Marx (2007) affermano: La terapia dell’esposizione non è solo difficile per il cliente, è impegnativa e faticosa anche per il terapeuta. In effetti non è raro che le forti emozioni emotive del paziente, durante la terapia espositiva, evochino un disagio secondario nel terapeuta (pp. 164 – 165). Un terapeuta preoccupato di ledere se stesso, potrebbe, in tali casi, scegliere di non usare l’esposizione oppure, in alternativa, egli potrebbe tentare di renderla meno intensa e coinvolgente. In entrambi i casi si comporterebbe in maniera poco professionale ed etica.

I terapeuti dovrebbero trovare un giusto equilibrio tra l’empatia per il disagio dei loro assistiti e il mantenimento di una distanza professionale che consenta risposte terapeutiche adeguate (Deacon e Farrel 2013; Foa e Rothbaum 1998). Al fine di riuscire in questo, è necessario confrontarsi sistematicamente, previa opportuna formazione, con un collega supervisore esperto.

Convinzioni riguardo le preferenze dei pazienti ed il tasso di abbandono
Alcuni terapeuti ritengono che ai loro pazienti non piaccia la terapia espositiva e preferiscano, invece, sottoporsi a trattamenti che non comportino il disagio associato al dover affrontare direttamente stimoli temuti. A tal proposito, in uno studio eseguito da Neudeck (2007) su studenti in psicoterapia, tirocinanti e psicoterapeuti, emerse che la barriera più frequente per attuare l’esposizione nei disturbi d’ansia era che per loro i pazienti non sono convinti dei principi alla base della terapia. Quindi, sebbene l’esposizione fosse considerata altamente efficace dai professionisti, veniva considerata non convincente per i pazienti e, questo, ne riduceva l’applicazione.
Contrariamente all’opinione dei professionisti, la terapia di esposizione sembra essere, invece, tenuta generalmente in grande considerazione dai pazienti. Rispetto alla farmacoterapia e ad altre forme di psicoterapia, ad esempio, i pazienti ansiosi (ed anche i loro famigliari) percepiscono la terapia espositiva come più credibile, accettabile e più probabilmente efficace a lungo termine (Deacon e Abramowitz 2005; Richard e Gloster 2007, Brown et al. 2007).
Oltre a tale credenza alcuni terapeuti credono, inoltre, che il tasso di abbandono nei confronti della terapia sia troppo elevato e per questo non la prescrivono. Relativamente a tale preoccupazione Hembree et al. (2003) hanno esaminato vari studi di esposizione prolungata per PTSD. I risultati combinati di 25 studi clinici non hanno evidenziato differenze significative nei tassi di abbandono tra esposizione prolungata (20,6%), esposizione combinata con terapia cognitiva o tecniche di gestione dell’ansia (26,0%) ed EMDR (18,9%). Hembree e Cahill (2007) hanno, inoltre, notato che i tassi di abbandono per la terapia di esposizione prolungata nel PTSD sono paragonabili a quelli osservati nella terapia di esposizione con altri disturbi d’ansia e sono inferiori ai tassi di abbandono associati a farmaci psicotropi. Quindi, la preoccupazione che l’esposizione ponga i pazienti a più alto rischio di abbandono, rispetto ad altri approcci terapeutici non è supportata dalle prove a disposizione.

Conclusioni

Nel loro insieme, un gran numero di barriere, pratiche e ideologiche, contribuiscono alla mancata diffusione, a livello clinico, dei trattamenti a base di esposizione. Una prima e considerevole barriera è rappresentata dalla mancanza di un’adeguata formazione dei terapeuti; tale lacuna è presente sebbene la ricerca indichi che la somministrazione ottimale delle terapie espositive non sia così semplice. Una seconda causa è dovuta all’ansia che il terapeuta, in certi casi, può provare durante l’applicazione della terapia espositiva; secondo alcuni studi, infatti, l’ansia del terapeuta sarebbe in grado di alterare la scelta e l’utilizzo di tale intervento. Un terzo ostacolo è dovuto ad un atteggiamento restio all’utilizzo di trattamenti manualizzati (ritenuti freddi, lesivi e poco efficaci), con una maggior preferenza per i trattamenti individualizzati. Un quarto ostacolo consiste nella credenza che molti terapeuti nutrono sulla non eticità e pericolosità della terapia; l’esposizione, a parer di loro, evocherebbe angoscia piuttosto che lenire l’ansia e per questo motivo è vista come un intervento troppo cruento. A rappresentare una quinta barriera è la convinzione che l’esposizione possa essere potenzialmente dannosa per il terapeuta stesso; alcuni clinici credono, infatti, che assistere sistematicamente alle esperienze di sofferenza dei loro pazienti possa crear in loro dei danni. Infine, secondo un punto di vista comune a molti terapeuti, l’esposizione non è da usare in quanto sarebbe percepita così negativamente dai pazienti e famigliari da provocare tassi di drop – out elevatissimi. Per tutti questi motivi la terapia espositiva continua ad essere poco utilizzata e questo, da una parte, vieterebbe ai pazienti di beneficiare di un trattamento efficace e, dall’altra, appesantirebbe i costi a carico del sistema sanitario costretto a dover investire su terapie più lunghe e/o meno efficaci. Il superamento di tali barriere, dunque, dovrebbe essere considerato un obiettivo sia scientifico che politico per una buona pratica sanitaria.

Articolo scritto da:

Emiliano Toso

Opera in ambito clinico occupandosi della valutazione e psicoterapia dei disturbi psicopatologici con particolare interesse all applicazione della terapia di esposizione per i disordini d’ ansia. Insegna l’esposizione terapeutica in diverse scuole di psicoterapia italiane

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