"Associate Chapter della Association for Behavior Analysis International"
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"Membro della European Association for Behavioural and Cognitive Therapies EABCT"

CERCA PSICOTERAPEUTA

Malattia Mentale e Recovery

Strumenti di cura innovativi basati sulle evidenze scientifiche

Ad oggi la comunicazione della diagnosi di schizofrenia o di un’altra malattia mentale non segna più un destino ineluttabile.
Esistono infatti dei percorsi e delle opzioni di trattamento che ammettono una certa qual forma di recupero.

Il concetto di malattia mentale come malattia grave è un concetto relativo: la malattia mentale infatti è fluttuante, ciò non esclude che le persone per lunghi periodi di tempo possano perseguire obiettivi di vita sani.
Il recupero dalla grave malattia mentale a guadagnare o riguadagnare una vita significativa non è solo desiderabile, ma può essere considerato possibile (Anthony, 1993; Davidson et al., 2005; Farkas, 2007; Liberman et al. 2002; Ridgway, 2001; Silverstain & Bellack, 2008; Spaniol et al., 2002).

Numerose sono le testimonianze dei cosiddetti “consumers/survivors” ovvero di persone che attualmente accedono ai servizi di salute mentale o ex pazienti che non hanno rinunciato ad una propria progettualità di vita o in altri termini a vivere una vita degna di essere vissuta. Patricia Deegan, psicologa clinica; Dan Fischer, psichiatra; Fred Frese, psicologo, sono solo alcuni di questi nomi.

Recovery

I processi di deistituzionalizzazione negli anni ‘70, il superamento dell’idea di cronicità di Kraepeliana memoria e il contributo delle ricerche longitudinali rappresentano il background storico di ciò che oggi definiamo Recovery.
Il Recovery è un costrutto multidimensionale di difficile definizione. E’ associato con la speranza, l’accettazione e l’impegno (Ridgway, 2001); la connessione con gli altri (Ahern & Fisher, 2001; Frese & Davis, 1997); l’autodeterminazione e il processo decisionale condiviso (Deegan, 2007; Deegan & Drake, 2006; Frese & Davis, 1997; Schauer, Everett, & del Vecchio, 2007); l’avere rapporti di sostegno dagli operatori (McGrath & Jarrett, 2004); e il peer support (Solomon, 2004).

Secondo Liberman e Kopelowicz (2005) “le persone sono in Recovery quando i sintomi della loro malattia non interferiscono con il loro funzionamento nella vita quotidiana, permettendo loro di lavorare, andare a scuola, partecipare alle attività sociali e del tempo libero, e di vivere in modo indipendente nell’ambiente comunitario, senza essere confinati nei “ghetti” per i malati di mente”.
Secondo tale definizione, il recovery potrebbe attivarsi spontaneamente, senza necessariamente entrare in contatto con professionisti della salute mentale.
In questo senso il recovery è un’esperienza della persona, non un modello strutturato e neppure una pratica dei professionisti, nessun servizio può “fare” il recovery (Farkas & Anthony, 2010).
Pertanto i servizi possono promuovere tale processo, creando una via agevolata alla persona e supportandola nel proprio percorso di recovery individuale, personale e non lineare.
In questo contesto si inseriscono i progetti di ospitalità come il progetto IESA (Inserimento Etero Familiare Supportato di Adulti con disagio psichico) e di sostegno lavorativo (percorsi IPS) promossi dai servizi di salute mentale, dai servizi sociali e dal privato sociale (le articolazioni organizzative possono variare nelle diverse realtà territoriali).

Legge 180/78

Recovery: dal manicomio alla vita in comunità

In Italia, come risultato della legge 180/78, è stato sviluppato un modello di assistenza per la salute mentale basato sulla comunità e, tenendo conto delle nuove linee guida nazionali, sono state implementate le prime strutture residenziali non ospedaliere.
Nel panorama nazionale ed internazionale i servizi si sono evoluti in risposta a fattori economici, politici e di governance locali, di conseguenza, attualmente vi è un’ampia variabilità nei servizi offerti dalle strutture, che vanno da impostazioni di assistenza residenziale ad alto supporto (24 ore), ad alloggi completamente indipendenti.

Alcuni dei principali punti critici della diffusione di tali strutture sono:

  • il basso tasso di “dimissione” con il conseguente rischio di istituzionalizzazione;
  • l’alta variabilità delle risorse e degli interventi forniti;
  • la scarsa differenziazione dei livelli di intensità delle cure offerte.

Vi è inoltre una estrema variabilità nella terminologia utilizzata: una recente rassegna sui servizi di alloggio per persone con problemi di salute mentale ha identificato 307 termini utilizzati per l’alloggio supportato in 400 articoli (Gustafsson et al., 2007; McPherson, et al., 2018).

Per queste ragioni, sebbene l’abitare supportato sia un contributo essenziale al processo di recupero per le persone con gravi problemi di salute mentale, la letteratura è frammentata ed incompleta (Krotofil et al., 2018).
I dati locali suggeriscono che pazienti con diversi profili socio-demografici e clinici, così come esigenze di cura differenti, vivono insieme. Questa situazione rende difficile, e a volte impossibile, soddisfare i piani individuali di riabilitazione per le esigenze specifiche della persona (Santone et al., 2005; Ghio et al.,2016).

La sfida dei percorsi abitativi specifici

Una futura sfida chiave per il sistema di salute mentale italiano potrebbe essere quella di concepire percorsi abitativi specifici per diversi gruppi di pazienti, integrando altri strumenti di cura, adottando pratiche ecologiche, creando valore sociale attraverso reti di relazioni e reciprocità, ottenendo anche risparmi economici.

Progetto IESA

In questo contesto si colloca il progetto IESA (Inserimento Etero Familiare Supportato di Adulti con disagio psichico), intendendo l’inserimento di una persona in cura presso un centro di salute mentale in una famiglia appositamente selezionata e abilitata (Aluffi, 2001).
Il Progetto IESA si pone l’obiettivo di offrire al paziente, in seguito definito ospite, un contesto familiare e relazionale idoneo a promuovere il suo benessere psicofisico.
L’ambiente familiare, infatti, presenta delle caratteristiche che possono promuovere un percorso evolutivo:

  • è certamente meno stigmatizzante rispetto alle strutture;
  • fornisce un aiuto nello svolgimento degli atti quotidiani;
  • l’aiuto quotidiano è offerto nel tempo sempre dalle stesse persone,
  • apporta stimoli e sostegno;
  • favorisce l’identificazione con figure “sane” e abili, riducendo la “distanza affettiva” ed i disagi correlati alla solitudine.
  • Inoltre la convivenza quotidiana può fare emergere potenzialità, caratteristiche e anche difficoltà della persona, che non sempre emergono in contesti istituzionali.

In sintonia con i principi di IESA si pongono altri progetti nel panorama nazionale come Housing First.
Il programma è finalizzato all’inserimento stabile in appartamenti reperiti nel mercato privato, di persone senza dimora spesso con patologie psichiatriche talvolta non in trattamento o persone con dipendenze patologiche attive.

Housing First: progetti individualizzati flessibili in case del mercato privato

Punto centrale del programma non è sviluppare percorsi standardizzati, ma creare dei progetti individualizzati flessibili che si calino sulle reali esigenze e bisogni delle persone.

Finalità ultima del progetto è infatti non solo l’inclusione sociale, ma promuovere un cambiamento identitario affinchè l’individuo da “persona senza dimora” o “malato di mente” cominci a percepirsi come persona residente, favorendo la crescita personale e l’autodeterminazione.

Le persone infatti non hanno bisogno di una guarigione completa e di diventare “normali” per potersi dedicare ad una vita nella comunità (Davidson et al., 2012).

Realtà come il progetto IESA, Housing First e i progetti di inclusione sociale diffusi nel territorio nazionale, ci pongono in una condizione di “cittadinanza attiva” nella collettività, in cui i cittadini contribuiscono in prima linea alla lotta contro lo stigma ed il pregiudizio, che spesso emarginano le persone colpite da sofferenza psichica.
In altri termini, sono i cittadini stessi a facilitare il percorso del recovery delle persone.

Le pratiche basate sull’evidenza – Evidence Based Practices

In un’ottica di promozione e non contrasto del paradigma del recovery risulta di primaria importanza integrare i progetti abitativi e di inclusione sociale per persone con malattia mentale, con altre pratiche basate sull’evidenza (Evidence Based Practices – EBP).
Le persone con malattia mentale, infatti, hanno diritto ad interventi efficaci. Tuttavia non sempre i servizi di salute mentale sono organizzati sulle “buone pratiche”.

Tra i trattamenti riabilitativi evidence based, la CBT (Cognitive Behaviour Therapy) ha sicuramente acquisito un solido statuto scientifico (Lindenmayer, 2000; Mueser et al, 2013), in quanto approccio transdiagnostico, ovvero applicabile con successo a quasi tutte le condizioni psichiatriche (Van der Gaag, 2014).
Insieme alla CBT, gli approcci al supporto lavorativo, rientrano tra gli interventi raccomandati dalle pratiche basate sull’evidenza (Corrigan et al, 2008; Mueser et al, 2013).

E il lavoro? – Il modello Individual Placement and Support

Se la casa è considerata un diritto umano imprescindibile e l’inserimento abitativo costituisce il primo passo dei percorsi di supporto alla persona, il lavoro gioca un ruolo cruciale per le persone rispetto al mantenimento del proprio benessere e alla promozione del processo di recovery (Boardman et al., 2003; Areberg et al., 2013).
L’occupazione lavorativa rappresenta uno degli obiettivi primari per la maggior parte delle persone, incluse quelle con disagio psichico.
Studi dimostrano che la mancanza di partecipazione al mercato libero del lavoro è molto più alta e prevalente per le persone che soffrono di una malattia mentale in tutti i paesi (Henderson et al., 2015).
I tassi di disoccupazione stimati variano dal 60% al 90% a seconda della gravità del disturbo e del paese (Harnois et al., 2000; Marwaha et al., 2007).
Il modello IPS (Individual Placement and Support) è stato sviluppato negli anni 90’ da D. Becker e R. Drake, sulla base delle esperienze sul campo negli Stati Uniti, per favorire l’inserimento lavorativo delle persone con disagio psichico nel mercato libero del lavoro.
Si tratta di un intervento centrato sulle caratteristiche della persona che desidera avere un’occupazione.

Un approccio centrato sulla persona

L’IPS fornisce, tramite uno specialista, l’aiuto necessario nella ricerca, nell’ottenimento e nello svolgimento di un impiego all’interno del mercato del lavoro.
Il presupposto è che l’attività lavorativa degli utenti è realizzata all’interno di normali luoghi lavorativi e con gli stessi diritti e doveri che ogni libero cittadino incontra durante lo svolgimento del proprio lavoro.
Si tratta di un metodo basato su principi chiari e trasparenti, dove gli operatori IPS valorizzano le capacità, i punti di forza, il recupero e il benessere della persona attraverso dei percorsi personalizzati.

Una massiccia letteratura ha dimostrato che i percorsi IPS rappresentano un valido supporto nel trovare e mantenere un impiego competitivo. L’occupazione migliora gli esiti clinici, sociali ed economici, riduce il numero di ricoveri e di accessi ai centri di salute mentale ed in generale migliora la qualità di vita della persona (Luciano et al., 2014).

Le criticità dei percorsi formativi pre-esistenti

L’IPS dichiara apertamente e promuove, come finalità principale, la ricerca e l’ottenimento, in tempi rapidi, di un lavoro vero. Inoltre, altro aspetto da considerare, l’IPS non prevede valutazioni preliminari approfondite (come diagnosi funzionali, bilanci di competenze, ecc.) e non propone tirocini o percorsi formativi, prima del lavoro.

Di fatto le caratteristiche dell’IPS rappresentano un’innovazione rispetto ai percorsi formativi e riabilitativi pre-esistenti. Infatti, sebbene questi ultimi si siano raffinati nel tempo in modo da seguire un maggior numero di utenti, diverse sono le criticità sul piano qualitativo (Fioritti & Trono, 2015):

  • l’incontro diretto con il mercato del lavoro non è mai immediato;
  • spesso il bisogno lavorativo permane;
  • sul piano concreto ciò si traduce con il reiterarsi nel tempo degli stessi tirocini e percorsi formativi;
  • le liste d’attesa richiedono tempi spesso indefiniti;
  • la scelta del tirocinio o lavoro protetto non incontra sempre le preferenze della persona.

Tali elementi di criticità potrebbero sfociare in un atteggiamento eccessivamente assistenzialista e medicalizzato, focalizzando l’attenzione sulla malattia e non sulle potenzialità della persona che spesso sono lasciate in standby.
Non è raro, infatti, che spesso siano altri attori a decidere cosa sia più giusto per la vita del paziente. Il messaggio velato spesso veicolato è che “la persona non debba stressarsi eccessivamente, altrimenti potrebbe scompensarsi in termini clinici”. Di fatto, ad oggi, le statistiche a nostra disposizione non ci consentono di sostenere un simile pensiero.
Tutto questo contribuisce allo sviluppo di una serie di invalidità, che alla lunga potrebbero realmente peggiorare il quadro clinico della persona: impatto sul senso di auto-efficacia, abbassamento del tono dell’umore con conseguenti aspetti depressivi.
Il rischio è quello di creare uno svantaggio indotto dal sistema, di plasmare il cosiddetto “bravo paziente” compliante rispetto al trattamento e alle terapie, ma senza mai chiederci in qualità di familiari, operatori della salute mentale, amici, quali realmente fossero gli obiettivi di vita di quella persona.

Pertanto è importante tenere in considerazione gli aspetti soggettivi, ovvero il modo in cui la persona tenta di dare un senso alla propria esperienza. E’ inoltre necessario tener presente che se anche le persone con malattia mentale possono presentare opinioni irrazionali, ciò non significa che siano individui irrazionali.
Sentirsi “presi sul serio” è il primo passo per riprendere il filo della propria esistenza.

Autore Articolo

Mosca Martina (Azienda Usl di Bologna) & Schumann Romana – Centro Gruber – Bologna – Sito: http://www.centrogruber.org/

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